Chi ci ha ispirato
In questa sezione vogliamo presentare alcuni dati e ipotesi in buona misura eterogenei tra loro ma accomunati dall’essere particolarmente stimolanti per una riflessione sulla musica davvero in linea coi tempi. Si tratta innanzi tutto della teoria filosofica del contorno, della nozione di forme vitali dello psicologo Daniel Stern e del modello DIR-Floortime delineato da Stanley Greenspan e Serena Wieder. In modo e misura diversi, sono questi i riferimenti alla base dell’intero RSM. Ma, in un’ottica più “operativa”, è utile confrontarsi anche con il modello composito di Patrick Juslin, con la ricerca del gruppo coordinato da Michael Tomasello e, infine, con il modello SAME di Katie Overy e Istvan Molnar-Szakacs.
La teoria del contorno
Se non può essa stessa provare emozioni, la musica sa manifestare con straordinaria efficacia un comportamento emozionato, grazie alle caratteristiche comuni tra il suo contorno e il comportamento tipico di chi sta facendo un’esperienza emotiva. Si tratta di un’analogia strutturale che l’ascoltatore è propenso a cogliere e interpretare emotivamente in modo automatico, irriflesso. Anche se l’emozione non c’è, noi non possiamo che percepirla.
Secondo la teoria del contorno, che riprende intuizioni antiche ma che oggi è legata soprattutto ai filosofi Peter Kivy e Stephen Davies, la musica ci pare quindi triste o allegra perché ne possiede i tratti espressivi, si “comporta” come ci comportiamo noi quando siamo in preda a tali sentimenti. Non si tratta di un fenomeno percettivo stravagante, poiché frequentemente vediamo stati d’animo in ciò che pur sappiamo essere privo di mente, o in chi, pur avendo una mente, sappiamo non essere come ci appare: il salice piangente, o il cane san Bernardo che dorme beatamente alla sua ombra, hanno il profilo triste.
Alcune caratteristiche musicali suonano come la voce umana emozionata. Un suono acuto e stabile, brillante e scandito nella sua evoluzione temporale, è tendenzialmente percepito come una voce gioiosa, mentre un suono ricco di dissonanze tende a essere percepito come manifestazione vocale di angoscia. Ancor più dell’elemento timbrico, è il contorno melodico a richiamare la prosodia del linguaggio o, in un senso più ampio, dell’espressione vocale.
Inoltre, alcune caratteristiche del contorno richiamano il movimento e il comportamento di chi sta vivendo un’emozione. La musica è essa stessa un gesto, che si apre felice o si ritrae nello sconforto.
Un lungo e animato dibattito filosofico è volto a stabilire se le emozioni della musica, oltre ad essere riconosciute dall’ascoltatore, siano anche contagiose. Se, da parte sua, Davies ritiene senza riserve di sì, Kivy pensa invece che a contagiare sia l’emozione estetica veicolata dalla musica, la percezione del bello e del brutto. Non entreremo in questa discussione (rinviando piuttosto alla lettura del Pentagramma relazionale), ma notiamo come la musica, attraverso il contorno, generi emozioni accessibili a ogni ascoltatore. In particolare, là dove la relazione interpersonale quotidiana crea difficoltà e disagio, la relazione con la musica e attraverso la musica può essere di straordinario aiuto. E’ questa, in fondo, una delle idee alla base del RSM.
Le forme vitali
La seconda idea a fondamento del RSM è debitrice della riflessione dello psicologo e psicoterapeuta Daniel Stern, che ha introdotto la nozione di forma vitale per denotare ciò che viene scambiato tra adulto e bambino nella forma primigenie di comunicazione umana, l’interazione diadica precoce (protoconversazione).
L’adulto e il bambino (come gli adulti tra di loro o, eventualmente, con il terapeuta) “dialogano” senza parole manifestando forme vitali; entrambi alternano gesti e vocalizzi in uno scambio multimodale che, per esempio, esordisce con un contorno e una dinamica crescenti, ricchi di staccati, per diventare, quando la gioia del piccolo rischia di divenire sovraeccitazione, decrescente, legata, in una risoluzione capace di ricondurre all’omeostasi. Le forme vitali conferiscono dunque una struttura narrativa che si sviluppa in modo dinamico, in uno spazio e in un tempo, con una propria intenzionalità e un adeguato livello di tensione.
Ma le forme vitali restano a fondamento delle relazioni espressive e comunicative non verbali anche nell’età adulta, rivelandosi elemento cruciale per raggiungere una sintonizzazione e, con essa, la sensazione di vivere insieme un’esperienza.
Una forma vitale è qualcosa di elusivo, tanto difficile da definire quanto, in fondo, semplice da cogliere. Si tratta di una forma astratta, individuata in primo luogo dalle sue caratteristiche dinamiche, cui non a caso Stern fa riferimento attraver- so appellativi musicali sempre caratterizzati da un’intrinseca dinamicità, quali crescendo e decrescendo, diminuendo, pulsando, legato e così via.
Il riferimento a Stern ci porta direttamente al cuore delle potenzialità terapeutiche della musica, dando un senso più concreto alle riflessioni teoriche suscitate dalla nozione di contorno. L’incontro con la musica è l’incontro con una forma vitale che sollecita una comunicazione emotiva intenzionale e non meramente rispecchiante, sebbene semplificata dalle molte ripetizioni e caratterizzata da un certo grado di prevedibilità. Pur non trattandosi dell’incontro con una persona, l’ascoltatore coglie dunque alcune proprietà importanti della relazione interpersonale senza impegnarsi in una vera interazione, con tutta la corporeità e i fraintendimenti che può portare con sé Questo aspetto assume grande importanza in un contesto terapeutico, essendo suscettibile di promuovere, in una situazione potenzialmente meno soverchiante, lo sviluppo di aspetti significativi dell’intelligenza interpersonale (quali, per esempio, il riconoscimento di scopi ed emozioni) o la comprensione di alcuni basilari meccanismi dialogici, nonché, laddove una situazione troppo compromessa non lo impedisca, una migliore conoscenza delle proprie reazioni emotive, del proprio mondo interno.
Il modello DIR-Floortime
Modello di riferimento nell’esperienza con i bambini autistici che ha avuto come esito il libro Autismo e musica, il DIR (Developmental, Individual-differences, Relationship-based model) è uno strumento di valutazione e intervento messo a punto da Stanley Greenspan e Serena Wieder. Pur avendo come ambito d’intervento privilegiato i disturbi dello spettro autistico, ogni bambino con bisogni speciali che manifesti difficoltà di comunicazione e di relazione può trarne beneficio.
Il DIR fa riferimento a sei livelli di funzionamento emotivo-cognitivo-sociale infantile che nella loro successione determinano la crescita di ogni individuo, e attribuisce grande importanza alle differenze individuali relative al modo in cui ogni bambino riceve le informazioni provenienti dal mondo e dagli altri (informazioni uditive, tattili, visuospaziali, ecc.), le elabora e reagisce a esse. Frequentemente, infatti, bambini con la stessa diagnosi presentano caratteristiche totalmente diverse, di cui si dovrà tenere conto per giungere a stabilire con l’adulto di riferimento una relazione emotiva significativa, promotrice di sviluppo e di apprendimento autentici.
Il punto di partenza di ogni intervento è quindi un’attenta osservazione dell’interesse naturale del bambino, delle sue motivazioni e del suo peculiare modo di interagire con l’esterno.
In pieno spirito DIR, la tecnica Floortime parte da un’osservazione attenta dell’interesse naturale del bambino, dal rispetto per il suo profilo individuale e il suo livello di sviluppo, nella forte convinzione che siano le emozioni a rendere possibile il vero apprendimento. L’attività è fatta di interazioni gioiose capaci di aiutare il bambino a raggiungere le diverse tappe dello sviluppo, partendo dalla convinzione che la condivisione di sentimenti e obiettivi sia fondamentale per lo sviluppo emotivo, cognitivo e affettivo della persona. Concretamente, questa condivisione si realizza anche sedendosi per terra, all’altezza del bambino, in modo che il piccolo possa vedere l’adulto o, se non è in grado di guardare — come spesso accade ai bambini autistici, per cui gli occhi sono uno stimolo troppo forte da sopportare — condividerne almeno la presenza fisica.
Juslin: le molte emozioni della musica.
Raccogliendo e sistematizzando un grande numero di ricerche recenti, Patrik Juslin ha proposto un interessante modello dell’origine delle emozioni musicali, che sono senza dubbio una delle principali ragioni per cui, in ogni fase della vita, “perdiamo” ore e ore ad ascoltare musica. Si tratta di emozioni così eterogenee da rendere inutile cercare, come invece è stato fatto finora, una spiegazione unitaria a tutti i fenomeni. Dal canto suo, Juslin individua sei meccanismi mentali che a seconda degli stimoli verrebbero attivati tutti insieme o in parte, producendo così esperienze complesse e differenti.
Ma osserviamoli in dettaglio.
Riflessi. Il primo meccanismo cognitivo è quello che innesca quei processi rapidissimi che sono i riflessi in risposta a eventi quali suoni improvvisi o dissonanti, salti subitanei di frequenza o intensità, e così via. Si tratta prevalentemente di un sistema di allerta, che in condizioni acustiche di potenziale pericolo attiva l’organismo facendolo sentire a disagio per preparare rapidamente una risposta. Eppure, il sistema riflesso può venire attivato anche dalla presenza di consonanze, innescando reazioni psicofisiche gradevoli.
Condizionamento valutativo. Permette di associare talvolta in modo indelebile un suono a particolari eventi positivi o negativi. Tanto l’apprendimento associativo quanto la reazione suscitata ogni volta dall’ascolto del suono sono spesso inconsci, caratteristica da sempre ampiamente sfruttata dalla pubblicità e dalla musica ambientale finalizzata a qualche scopo (induzione all’acquisto o alla calma del paziente).
Contagio emotivo. L’emozione espressa nella musica ci contagia fino a farci rivivere l’esperienza con analoga intensità e carattere, senza alcuna mediazioni intellettuale. Si tratta di un meccanismo con una chiara funzione affiliativa, caratteristica che connota la musica di tutti i tempi e tutti i luoghi.
Immaginazione visiva. Permette di associare una caratteristica musicale di più o meno lunga durata con un’immagine visiva che a sua volta genera l’emozione: una canzone, o un suo passaggio, vengono legati a un paesaggio, un colore, una persona. Se talvolta le immagini evocate sono piuttosto stereotipate, altre volte si tratta di immagini idiosincratiche, legate alla nostra storia personale. Per questa ragione molti psicoterapeuti terapeuti se ne servono per modulare gli stati d’animo del paziente, che viene invitato a creare e manipolare particolari immagini. Naturalmente questo tipo di lavoro può essere proposto solo a chi sia in grado di creare immagini mentali anche su richiesta e possibilmente di commentarle, competenza su cui non sempre è ragionevole fare affidamento, specie quando si lavora con bambini o con la fragilità.
Memoria episodica. Gli psicologi della musica lo chiamano effetto ‘Cara, stanno cantando la nostra canzone’. Si tratta dell’associazione, questa volta pienamente consapevole, di un frammento musicale più o meno esteso con un episodio di vita. E’ chiaro quanto un effetto di questo genere sia tanto più significativo quanto più è ricca la vita sociale ed affettiva delle persone.
Attesa. La struttura del brano musicale, e in particolare il senso di attesa, sospensione, risoluzione che può essere creato dalla tensione tonale, genera emozioni specifiche quali, tipicamente, sorpresa, spavento, piacere, brivido, delusione, speranza e ansia. Non è quindi il singolo suono ad avere effetto, come avveniva per esempio nei riflessi, ma un più ampio e strutturato pattern sonoro.
Kirschner e Tomasello: sincronizzazione e cooperazione.
Molti scienziati, e con loro diversi filosofi, sono convinti la musica abbia avuto origine nella propensione tipicamente umana e spontanea a sincronizzarsi con il ritmo ambientale. Oltre che naturale, tale propensione è estremamente precoce, come mostrano S. Kirschner e M. Tomasello con il primo dei due studi che vogliamo esaminare.
Gli autori hanno confrontato la reazione spontanea dei bambini in tre diverse condizioni: 1) ascolto e visione di una persona che usa percussioni 2) ascolto e visione di una percussione automatica che si vede e si sente e 3) solo ascolto di una percussione. Ebbene, a trenta mesi i bambini si sincronizzano spontaneamente, ma solo se a produrre il ritmo è una persona. Non possiamo chiedere spiegazioni a bambini così piccoli, ma possiamo supporre che solo in questa condizione, che è l’unica ad avere un carattere realmente sociale, essi siano motivati a cooperare a un fine comune. Un fine che sembra comprensibile anche a chi, come i bambini autistici, di solito incontra grandi difficoltà nell’ambito sociale. Lasciati liberi di giocare con un compagno di classe, ciascuno a cavalcioni del proprio djembè, i bambini autistici che hanno seguito le nostre attività sono stati in grado di coordinarsi, imitare e improvvisare, talvolta sincronizzandosi attraverso lo sguardo, talvolta agendo autonomamente e attendendo una risposta, ma sempre in maniera pienamente intenzionale, autonoma. Se i bambini a sviluppo tipico si sincronizzano spontaneamente (anche) perché vogliono cooperare, le persone con problemi di comunicazione possono forse imparare attraverso la sintonizzazione a cooperare meglio, in un percorso per certi versi opposto ma molto efficace.
Ancora al legame tra musica d’insieme e cooperazione è dedicato il secondo esperimento, che ruota intorno a due tipi di attività che impegnano coppie di bambini di quattro anni in presenza di un adulto. Una metà delle coppie è invitata a svolgere un gioco musicale: ascoltando una canzone, i bambini cantano, ballano intorno a un tappetino e suonano piccole percussioni a forma di rana. L’altra metà di bambini viene coinvolta in un gioco strutturalmente molto simile ma senza carattere musicale: nello stesso ambiente, fanno un girotondo intorno al tappetino giocando con oggetti simili ma che non emettono alcun suono, né vi è alcuna canzone da ascoltare. Immediatamente dopo questa prima fase, tutti i bambini partecipano a due ulteriori giochi, appositamente pensati per valutare il grado di propensione all’aiuto reciproco, con il risultato che i “musicisti” si rivelano assai più cooperativi dei compagni.
Overy e Molnar-Szakacs: il modello SAME.
Il modello SAME (Shared Affective Motion Experience) parte dalla constatazione, sperimentalmente accertata, che la musica non è mai solo ascoltata passivamente, ma provoca anche una reazione motoria. Se anche, per carattere o per buona educazione, ci tratteniamo in poltrona, il nostro cervello si prepara a farci ballare.
Se poi qualcuno canta o suona di fronte a noi, i nostri processi percettivo-motori incontrano i corrispondenti processi attivi nel cervello del musicista e, tramite l’attivazione delle aree specchio e delle regioni emotive a loro interconnesse, possiamo arrivare a sentirci empaticamente molto vicini. Quando addirittura, facendo musica d’insieme, si è contemporaneamente esecutori e ascoltatori, la sovrapposizione neurale – e l’empatia – raggiungono il massimo livello.
Tutte queste considerazioni ispirano un modello che si propone di utilizzare la musica per intervenire in numerose aree di disagio, dall’autismo ai disturbi di linguaggio. La musica viene proposta a un insieme di persone che, capaci di sincronizzarsi attraverso il suono, ne ricavano una forte sensazione emotiva suscettibile di indebolire le barriere interpersonali e di invitare alla condivisione. Una tipologia di intervento del tutto in sintonia con RSM, ma con significative differenze. Laddove SAME conferisce centralità al ritmo, RSM ritiene è invece centrato sula dimensione melodica.